sabato 15 marzo 2014

CULATELLUM ADDIO

Una delle attività più facili, da noi, è fare il profeta. Non c’è merito.  Nel precedente “Culatello elettorale” dello scorso novembre scommettevo che, invece di quel buon salame, avremmo mangiato della mortadella irrancidita. Oggi che, passata alla Camera è però ancora in attesa del voto del Senato, si hagià un’ideadi come sarà la nuova legge elettorale: e quel giudizio - per citare la compianta Gina Lagorio - risulta approssimato per difetto. Sono forse ricomparse le promesse preferenze? Nemmeno per sogno. Avremo nuovamente compagini di designati dalle segreterie a comporre un Parlamento dalla più o meno intensa sfumatura rosa secondo l’estro delle pennellate che il pittore senatoriale sovrapporrà a quelle del deputato. L’elettore coonesti, ratifichi, convalidi, riconosca, avalli: scegliete voi. Degni di Ulpiano, gli illuminati quanto benevolmente solleciti giureconsulti lo solleveranno dalla fatica di fargli esprimere un parere, una scelta. Per aspirare al premio di maggioranza, poi, dovrebbe bastare il 37% dei suffragi: se il 37% degli italiani vuole una cosa, quella cosa si farà e dunque avremo una sicura governabilità. Tanto più che gli stessi giureconsulti hanno previsto uno sbarramento, una soglia minima di suffragi, per entrare in Parlamento. Anzi, per essere sicuri, invece di una sola soglia - crepi l’avarizia - ne hanno messe un po’, non si sa mai. È come la punteggiatura di Totò che nel dettare una lettera conclude: ”Punto! Anzi: due punti!”.
Poi c’è il tema delle incompatibilità. Non so, bene cosa preveda, ammesso che preveda qualcosa in proposito, l’italicum (bel nome, elegante e patriottico!): soprattutto cosa preveda in relazione agli attenzionati - un’altra elegante espressione - dall’autorità giudiziaria. A proposito di preziosità linguistiche: non si potrebbe smetterla con “vista mozzafiato”, “gettare il bambino con l’acqua sporca”, “questo paese”, “senza se e senza ma”, “a trecentosessanta gradi”, ”silenzio assordante”? Per non parlare di spending review, jobs act, authority, question time, streaming. O di “Laims” (sic!) come ho sentito pronunciare in televisione (giuro!) il titolo “Limes” di una nota rivista di geopolitica: il confine latino diventato la versione inglese di un agrume dei Caraibi. E non posso nemmeno dirmi allarmato per il destino della nostra lingua. Indurrei in errore, giacché anche alcune porte sono “allarmate”: ma non perché impaurite, bensì perché dotate di un dispositivo d’allarme. Guardatevi in giro, se non ci credete.
Ma torniamo alla legge elettorale: noi che speravamo in un culatellum avremo, ahimé, un italicum. Il quale, come ci chiedevamo, cosa stabilirà, dopo l’accurato lavoro del Senato, in tema di rapporti con la Giustizia? Mah. La filosofia che vi presiede, e la prassi che si conosce, suggeriscono profezie che abbiamo già affermato essere facili. L’idea ispiratrice è nota: fino a sentenza definitiva (tre gradi di giudizio e una manciata d’anni, quanti bastano per alcune tornate elettorali: popi, prescrizione) vi è presunzione d’innocenza. Nobile principio. Che consente di venire eletti, legiferare, governare anche se colpiti da due condanne ma non da una terza della quale si è ancora in attesa: altro che solo “attenzionati”. Al nobile principio si attengono scrupolosamente parlamentari, ministri e sottosegretari. Si sa di molti che, avendo figli zucconi e bisognosi di ripetizioni private, hanno scelto accuratamente professori due volte condannati per pedofilia ma ancora in attesa del terzo grado di giudizio. E di altri che, sempre a corto di tempo, usano affidare ingenti somme di denaro, perché le versino in banca sul loro conto, a collaboratori due volte condannati per furto ma ancora in attesa del terzo grado di giudizio. E di altri ancora - anzi di altre, perché in questo caso la quota rosa è del 100% -  che  si affidano per regola a ginecologi due volte condannati per molestie sessuali, ma ancora in attesa del terzo grado di giudizio. Solo noi, privati cittadini, irragionevolmente sospettosi, in analoghe circostanze non vogliamo nemmeno sapere di avvisi di garanzia o di iscrizione al registro degli indagati, figuriamoci il terzo grado di giudizio o anche solo il secondo o il primo: a noi, in casi del genere, bastano di solito le semplici dicerie. Ma si sa, il popolo è forcaiolo, altro che garantista. E quando sceglie professori per le ripetizioni dei figli, collaboratori che maneggiano i suoi soldi, ginecologi ai quali affidarsi li pretende insospettati. Valli a capire, i cittadini.
A proposito di incompatibilità. Si sente spesso criticare la presenza di magistrati in Parlamento: ma che male possono fare più degli altri? È molto più grave la presenza di avvocati. Questi sì che dovrebbero essere ineleggibili: quale maggior conflitto d’interessi di quello di uno che in tribunale difende l’imputato di un reato previsto da una legge che lui stesso, in Parlamento, ha il potere di concorrere a modificare in favore del suo assistito?

Ma su questo punto possiamo essere abbastanza tranquilli: è difficile che succeda, in Italia.

domenica 19 gennaio 2014

INCONTRO RENZI-BERLUSCONI

Caro Matteo Renzi, due brevissime parole sul Suo incontro, avvenuto oltretutto a porte chiuse, con Silvio Berlusconi. Non Le pare che un colloquio segreto tra un esponente politico della Sua rilevanza e un condannato sia un fatto molto grave? E non Le pare che la Sua iniziativa restituisca una legittimità politica - di fatto se non di diritto - che un potere dello stato (quello giudiziario della Magistratura della Corte di Cassazione) aveva annullato e che un altro potere dello stato (quello legislativo del Senato della Repubblica) aveva reso operativa togliendogli il seggio di senatore? Se è così - e molti con me pensano che lo sia - allora chi è stato delegittimato dalla Sua iniziativa sono proprio le due istituzioni che ho citato.
Con i migliori saluti. Francesco Piscitello.


giovedì 7 novembre 2013

culatello elettorale



Viene Natale, epoca in cui, nelle campagne, si uccide il maiale. Ma sono convinto che i cittadini italiani non potranno gustare del culatello né per Natale né mai. Il porcellum - cioè l’attuale legge-porcata elettorale: l’elegante definizione è di uno dei suoi stessi artefici - si salverà ancora. Nella sostanza, se non nella forma. Ha troppi amici altolocati, il suino.
E non ha nemici.  A quelli che si dichiarano tali si possono infatti attribuire le parole che i milanesi mettono in bocca a chi prende di santa ragione pugni e schiaffi e, nel patetico tentativo di non perdere la faccia, si giustifica dicendo: Me n’ha daa, ma ghe n’hoo dii!  “Me ne ha date, ma glie ne ho dette!”.  I nemici del maiale sono tali solo nel gioco delle parti di uno spettacolo ad uso del popolo bue: qualche finto battibecco televisivo, qualche simulata contumelia, qualche recitato e forse precedentemente negoziato insulto. Poi, il silenzio.
Il fatto è che il porcellum piace a tutti. Loro, naturalmente, non noi. Piace tanto, alle segreterie di partito, nominare direttamente i parlamentari e lasciare all’elettore la pura formale ratifica. Lo consentiva anche la vecchia legge - il mattarellum - sia pure in modo appena un po’meno smaccato. Nel 1997, per esempio, l’Ulivo, che assolutamente voleva Di Pietro senatore nelle sue file, lo candidò come capolista nel collegio senatoriale del Mugello, fortezza sicura. Di fatto, cioè, lo nominò. Cito il caso Di Pietro non per malanimo verso l’esuberante, sanguigno ed anche simpatico onorevole Checiazzecca, ma per la nitidezza dell’esempio. Il meccanismo, dopo, è stato semplicemente perfezionato e amplificato dalla legge-porcata, che non ha fatto se non estendere la nomina a tutti i candidati - nel numero corrispondente alla percentuale spettante al partito - sottraendoli alla scelta degli elettori.
“Conoscere per deliberare”, proclamava nelle Prediche inutili Luigi Einaudi. Un liberale. Un liberale: dunque per me, di idee socialiste (ma non craxiane: non scherziamo!), un avversario. Ma che statura di avversario! Mille volte chapeau!, vicino a questi liberali all’amatriciana. Conoscere per deliberare. Come conoscerli, però, i candidati? Alcuni di essi sono noti a tutti, ma sono la minoranza: la larga maggioranza dei parlamentari sono peones, massa di manovra supina perché ricattabile al momento della compilazione delle prossime liste elettorali.
E se invece le liste prevedessero solo candidati residenti nel loro collegio elettorale, dove sono conosciuti non soltanto per le loro idee ma anche per quel che si dice di loro, per la loro moralità pubblica e privata, per la fiducia che è lecito avere nella concreta attuazione politica e promesse elettorali? Vero è che il parlamentare non ha vincolo di mandato. Vincolo giuridico no ma fiduciario sì. E allora devo poterlo premiare o punire alla prossima tornata elettorale. Ma perché ciò accada deve ripresentarsi obbligatoriamente ancora nel suo collegio, non altrove. Beh, scommettiamo che la prossima legge, di indubitabile catoniano rigore - il catonianum, diciamo - non lo prevederà? Che le segreterie si riserveranno il diritto di decidere loro dove iscrivere i candidati? E quindi ripetere, magari con meccanismi ancor più affidabili, manovre alla Di Pietro?
E ancora: chi farà la nuova legge? I parlamentari eletti con la vecchia, ovviamente: i quali hanno un lapalissiano maggior interesse a conservarla che a cambiarla. L’obbedienza acquiescente alla segreteria del partito favorisce il rinnovo del seggio più di quanto non faccia la più faticosa, ardua ricerca del consenso dell’elettore. Quante serie proposte di legge, infatti, quanti determinati, combattuti, tenaci, serrati dibattiti sul tema ricordano le cronache parlamentari negli otto anni di vita della legge 270 del 21 dicembre 2005? Forse moltissimi e sono io che, distratto, non me ne sono accorto e ho notato soltanto gli urli da copione nei talk show. Me n’ha daa, ma ghe n’hoo dii!!
No, cari concittadini: del buon culatello non ne mangeremo. Tutt’al più, della mortadella irrancidita. Se va bene.
7 novembre 2013

domenica 21 luglio 2013

RATING E KAZAKHSTAN: NESSUN LEGAME?


Le agenzie di rating ci declassano continuamente, sprecando, con le loro A e le loro B corredate di qualche meno o di qualche più, tutto l’alfabeto e i segni dell’aritmetica (ma non potrebbero anche loro, santiddio, adoperare dei normali numeri, come per i comuni voti di scuola?) mentre, dal canto loro, ministri e sottosegretari si sgolano a rispondere piccati che in fondo l’economia, a guardarla bene… che dopotutto, se si tiene conto di questo e anche di quello, ma al netto di quell’altro, anche i nostri conti…
Certo. Forse quelle agenzie non ci vogliono un gran bene (sentimento che, da parte mia, ricambio volentieri); certamente non sono sempre serene, lucide nelle loro analisi; è anche verosimile che le loro valutazioni siano viziate da altri più o meno sotterranei interessi. E soprattutto - argomento principe - chi diavolo sono costoro, quale democratica elezione, quale popolare suffragio ha conferito loro il potere di giudicare, e col giudizio favorire o danneggiare questo o quello, me compreso?
Va bene, va bene tutto. Incarneranno pure ogni perversione, quelle agenzie, ma fintanto che non riusciamo a sopprimerle, esistono. E può anche darsi che là dentro qualcuno legga i giornali. Legge le notizie che ci riguardano, e forse non solo quelle economiche. Ed ecco allora che magari gli scappa l’occhio su vicende come quella, che tanta considerazione internazionale ci ha meritato, della moglie e della bambina di un dissidente kazako imbarcate a forza su un aereo diretto là dove, secondo l’International Bureau for Human Rights, la donna «ha buone probabilità di finire in galera», dove «le condizioni di detenzione sono orribili» e dove «i pestaggi e le torture sono frequenti» (www.corriere.it, 16.7.2013). Incuriosito, il nostro uomo vuol capire cosa sia successo, il come e il perché, e con grande stupore scoprirà che i ministri competenti per faccende di quel genere non ne sapevano nulla, ma proprio nulla. Hanno fatto tutto i funzionari. Può succedere, nella terra dell’insaputa.
Prima o poi l’uomo - sempre lui, quello del rating - si siederà alla scrivania e deciderà delle A e delle B, dei meno e dei più coi quali dovrà procedere alla nostra futura riclassificazione (l’ultima ci vede a BBB+). Con la testa tra le mani comincerà a riflettere. Pensa e ripensa, gli verrà fatto di considerare che la Shalabayeva e sua figlia non sono affar suo, visto che lui si occupa di economia: ma che tuttavia l’economia italiana è comunque affidata a un governo che nell’affaire Shalabayeva e figlia è pur sempre coinvolto, e se tanto mi dà tanto, dirà… Han voglia allora gli esperti nostrani, i viceesperti, i tirapiedi di prima, seconda e terza classe che, a battaglioni compatti, tenteranno di convincerlo che può anche darsi che da noi qualche pasticcetto possa verificarsi - nessuno è perfetto! - ma che questo riguarda tutt’al più questioni minori come una donna o una bambina che, chissà poi perché, non vogliono essere espulse. E poi, alla fin fine, non l’abbiamo revocata, l’espulsione? E allora? D’accordo: non prima che partissero. L’abbiamo revocata dopo. Ma se si bada a ogni sciocchezza…
 Quando però si tratta di economia, eh no, lì siamo rigorosi.  È l’uomo del rating che, nel suo rozzo pressapochismo, fa di ogni erba un fascio. Immagina, pensa un po’, che se siamo pasticcioni in una cosa potremmo forse esserlo anche in altre. Ma come si fa a ragionare così? Si soffermi piuttosto, a proposito di economia, sulla ferrea determinazione (che tutto il mondo ci invidia) con la quale affrontiamo questioni come l’evasione fiscale o la corruzione, invece di fissarsi su queste cosucce del Kazakhstan!
Qualche giornale comincia anche ad avanzare l’ipotesi che il pasticcio non sia stato in realtà un vero pasticcio ma passato per tale al fine di coprire dell’altro. Io non ho elementi di giudizio e dunque non ne formulo alcuno, limitandomi a registrare quello che si legge sulla stampa. Ma quand’anche così fosse, la stessa copertura - così agevole da smascherare - sarebbe avvenuta in maniera non meno pasticciata del pasticcio autentico.
Però lui - sempre lui, quello dell’ABC, del meno e del più – siede incredulo e tetragono alla sua scrivania. Dal già poco onorevole BBB+ dove ci trovavamo prima, ci ha appena scaraventato a BBB. Bisognerebbe impedirgli di leggere i giornali, prima che, influenzabile com'è da ogni minimo indizio di inaffidabilità, gli venga il ghiribizzo di sbatterci a BBB-, l’ultima tappa prima che i nostri titoli, toccati dall’onta della lettera C, diventino junk bonds: che sarebbe, con leggiadra espressione, “titoli spazzatura”.

venerdì 28 giugno 2013

GRILLINI O GRILLIANI?

“C’est une révolte?” domandò Luigi XVI al duca di Liancourt quando seppe che era stata presa e distrutta la Bastiglia. “Non, Sire, - rispose il duca – c’est une révolution”.  

Una rivoluzione. Ma cosa distingue una rivoluzione da una rivolta? Gli obiettivi, credo. Nelle rivolte, essi sono costituiti da cose concrete che si vogliono ottenere con una provvisoria disobbedienza, più o meno violenta, alle regole che la società impone: ma basta così. Ottenuto ciò che voleva, sempre che la repressione non l’abbia preventivamente messa a tacere, la rivolta cessa. Non così la rivoluzione, che non intende semplicemente disattendere le regole: vuole sovvertirle.
Il 25 febbraio, col Movimento 5 stelle, la rivoluzione è sbarcata nel Parlamento italiano. Pacificamente. Fornendo, alla collera sociale, alla delusione, al senso rabbioso d’impotenza che in quel movimento trova rappresentanza, il cammino istituzionale del voto. E ha privato la protesta, con questo, del suo carattere rivoltoso. Lasciandole però quello rivoluzionario. Finora nessuna regola è stata infranta: il movimento, tuttavia, alcune regole del gioco politico si propone di sovvertirle. Sono le regole che riguardano l’organizzazione del consenso e della prassi così come essa si presenta nei partiti tradizionali. Si sente da tempo parlare dell’invecchiamento della forma partitica della rappresentanza civile, buona al tempo della sua nascita ma che nel nostro tempo comincia a mostrare la corda. E, poiché senectus ipsa est morbus, i partiti politici presentano dovunque tratti di patologia che, in paesi fragili come il nostro, sono tanto più evidenti e gravi. Credo dunque che, almeno nell’intenzione (per il momento disponiamo di poco altro), la rivoluzione proposta da questo movimento sia sacrosanta. Tanto più che essa si propone di agire senza violenza, sebbene alcuni considerino tale quella verbale di Grillo: ma io dissento decisamente da questa opinione. La violenza verbale risiede nella menzogna, non nei toni alti della voce o nella truculenza delle espressioni. È violenza l’inganno perpetrato con il garbo della voce sussurrata, non lo è la verità gridata con parole anche rozze o volgari.
Ho molto rispetto della parola: per questo mi permetterò una divagazione, come dire?, linguistica. Sul nome dei seguaci di Grillo, i grillini. Quella desinenza nuoce. Dà l’idea di qualcosa di piccolo, di minore, perfino un po’ ridicolo. Dilettantesco. O infantile. Non è facile, per coloro che si propongono cose molto serie, essere –ini. Ci sono riusciti bene i garibaldini, ai quali quella desinenza conferisce un carattere evocativo di giovinezza vitale e un po’ ribalda. Anche gli aderenti alla repubblica di Salò, i repubblichini, l’hanno portata come qualcosa di serio: tragicamente, atrocemente, orribilmente serio. Non infantile, tuttavia, non ridicolo. Per l’aderente al Movimento 5 stelle la desinenza –iano sarebbe molto migliore. È una desinenza che sottolinea l’importanza dell’idea o del nome che la precede: cartesiano, mazziniano, galileiano, cristiano. Anche nel male, eventualmente: hitleriano, staliniano. Non definisce però quasi mai cose di poco conto e in ogni caso suggerisce l’idea di una riflessione approfondita dietro le ragioni dell’appartenenza: non si è darwiniani, kantiani, freudiani per caso. Dunque, se davvero nomina sunt lumina, i grillini hanno tutto l’interesse a diventare grilliani. Ce l’ha anche Beppe Grillo. Ce l’hanno anche tutti coloro che guardano quel movimento con simpatia e con speranza.
Chiusa la parentesi. Ho detto che la rivoluzione del Movimento 5 stelle è sacrosanta, e lo confermo. Ma modificare la forma della rappresentanza politica, sostituendone quanto più possibile il carattere di democrazia delegata con quello di democrazia diretta nella misura in cui i moderni mezzi informatici lo consentono, è impresa non da poco, d’importanza forse storica. Un’impresa dunque che richiede un’elaborazione compiuta e articolata tanto della teoria che della prassi: come non è, lo riconosceranno gli stessi autori,.il dialogo tra Fo, Casaleggio e Grillo edito da Chiarelettere, che ha altri fini e altri significati. Ma l’importanza dell’impresa che il Movimento 5 stelle si propone richiederebbe almeno un saggio con premesse, svolgimento, conclusioni. Non si pretende certo un Montesquieu che scriva un nuovo “Spirito delle leggi” ma una riflessione storica, politica, sociale, economica ed anche antropologica condotta con rigore filosofico e scientifico mi pare necessaria. Sarebbe quello che permette al grillino di diventare un grilliano.  “Il Grillo canta sempre al tramonto” è di piacevole lettura e pieno di spunti ampiamente condivisibili: ma Montesquieu è altra cosa. Riflessioni come queste, lo so, non sono mai gradite al rivoluzionario che vede in ogni osservazione un freno all’impeto dell’azione e dunque a Grillo non piacerebbero le mie parole come piace invece a me buona parte delle sue. Ma tant’è.
Io credo che oggi - è il 22 marzo, mentre scrivo - il grillismo si trovi tra l’incudine e il martello: l’incudine della rivoluzione e il martello della politica. Mi spiego. Avrebbe mai potuto re Luigi aprire un tavolo di trattative con gli assalitori della Bastiglia? La rivoluzione non può che essere intransigente: col nemico non si discute, si tenta di distruggerlo e basta. È l’unica strategia possibile. La politica, invece, è l’esatto contrario: è l’arte della mediazione. È negoziato. È cedere qualcosa all’avversario in cambio di qualcosa che gli si richiede.  Non tutto-o-nulla: piuttosto, un po’. Poco è meglio di niente. Accontentarsi del meno peggio è bestemmia rivoluzionaria e saggezza politica. Ma il Movimento 5 stelle ha dei deputati in Parlamento: e lì, nel luogo della politica, dovrebbe svolgersi la rivoluzione. Impresa audace ma foriera di inevitabili contraddizioni. Quindici grillini hanno scelto Grasso come presidente del Senato, invece di Schifani: nel loro pensiero, il male minore. Grillini politici. Ma i grillini rivoluzionari avrebbero dovuto rifiutare la scelta. E infatti Grillo li ha bacchettati. Succederà ancora, succederà molte volte.
Il programma del movimento, che deve essere accolto integralmente, senza eccezioni, da chi voglia ottenerne il voto di fiducia in Parlamento, contiene, in venti punti, obiettivi rivoluzionari e politici mescolati tra loro. Credo invece che sia molto importante, quando si affronta l’ardua impresa di perseguire contemporaneamente entrambi, distinguere sempre a quale dei due tenda, volta per volta, l’azione del momento, proprio perché le strategie differiscono molto. Anche chi, come me, approva in parte non piccola il pensiero di questa nuova forza politica, è costretto a ritrarsi perché non condivide (è legittimo o no?) il merito di alcune scelte – vedi, nel caso mio, il punto 8 sull’uscita dall’euro -  che nulla hanno a che vedere coi pincìpi. La strategia del “prendere o lasciare” senza discriminazione è indubbiamente efficace. Ma ha un costo. Che al contadino affamato si dica: “Abbi pazienza! Adesso prendo il Palazzo d’Inverno e con questo cambierà il mondo: quello nuovo sarà fatto in modo da dare pane anche a te”. Ma i contadini non hanno tempo di aspettare che il mondo cambi per avere pane: è adesso che muoiono di fame. La rivoluzione, però, va per la sua strada, non può fermarsi: non si ferma nemmeno se deve ghigliottinare i suoi Robespierre o assassinare i suoi Trotzki, figuriamoci.
Coniugare l’intransigenza rivoluzionaria con le necessità dell’azione politica è la difficoltà di chi le sceglie entrambe: e il Movimento 5 stelle lo ha fatto. Non ha avuto soltanto il voto, intellettualmente motivato, degli indignati dell’arrogante immoralità politica: ne ha raccolto anche moltissimi nel Sulcis, a Taranto, nei luoghi del disagio sociale (ma quale disagio! Sofferenza, piuttosto, dramma), là dove occorre intervenire presto, subito. E nel voto di quegli elettori, la speranza politica nel modesto ovetto di oggi è più grande della speranza rivoluzionaria nella grassa gallina di domani.